Il basket è stato un’ancora di salvezza per Andrea Olivieri. Matelicese di nascita, classe 1983, a 14 anni è semplicemente una montagna di 165 chili e non certo di muscoli. All’epoca di bullismo non si parlava ancora, ma all’atto pratico ce n’era già eccome.
I compagni di scuola lo prendono di mira, lo vessano in ogni modo. Lo umiliano, lo picchiano. E così lui pensa al basket per provare a mettersi in carreggiata e cancellare quella sensazione di malessere che lo accompagna sempre. È Fabrizio Formentini, all’epoca allenatore delle giovanili di Castelraimondo, a prenderlo sotto la sua ala protettrice. «Per spronarmi mi ha invitato a scommettere con lui: quando sarei riuscito a completare cinque giri del campo da basket, avrei avuto da lui 5 mila lire – racconta Andrea – dovevo mettercela tutta. Già all’epoca non mi piaceva per niente perdere certi tipi di scommesse. Da quel momento la mia vita, in un certo senso, è cambiata. Avevo un obiettivo da raggiungere. A ogni costo».
Prima un giro, poi due, poi tre, cinque, 10 e così via. Andrea perde peso e cresce in altezza, arriva a sfiorare i due metri. È un duro in mezzo al campo, è grosso e spigoloso sotto le plance. Tutti lo chiamano “Bombardò” e il soprannome rende assolutamente l’idea. Fabriano, che all’epoca veleggia tra Serie A e A2, non può farsi scappare un prospetto così nato a pochi chilometri dal PalaGuerrieri. E se lo porta a casa, facendogli completare la trafila del settore giovanile fino a fargli assaggiare per qualche allenamento la prima squadra in una stagione magica: la 2000/2001, quella in cui la Banca Marche guidata dal leggendario Rodney Monroe sbanca Napoli in gara 3 di finale e torna per l’ultima volta della sua storia nella massima serie.
È ora di farsi le ossa per lo sbarbato Olivieri, che scende in C2 per qualche mese a Matelica e poi emigra per un biennio in C1 a Foligno, con coach Marco Schiavi in panchina e in campo un bomber come Alessandro Angeli. Il rientro nelle Marche, però, non è dei migliori. Nel 2004/2005 approda in C2 per sposare la causa di Tolentino, ma un infortunio al ginocchio lo mette presto ko (aprendo le porte, peraltro, all’ingaggio di un certo Sylvester Gray), poi ecco le annate a Castelraimondo e di nuovo a Fabriano, stavolta sponda Spider. «A quel punto mi trasferii a Pesaro un po’ per lavoro e un po’ per cambiare vita, giocai per qualche tempo al Pisaurum con coach Foglietti e poi in D a Montecchio, ma la passione per il basket stava scemando: mi stavo mettendo in testa di voler fare l’istruttore di functional training e così alla fine mollai del tutto per concentrarmi su quello. Il mio pensiero era: ma perché non diventare io stesso un istruttore di ciò che mi aveva salvato la vita, ovvero la preparazione fisica?».
Il basket, però, in qualche modo resta dentro la vita di Andrea. Nel 2014, ormai da qualche anno a Pesaro dove lavora come tecnico dell’Enel, insieme all’amico Mattia decide di intraprendere il percorso che lo dovrebbe portare a coronare il suo nuovo sogno. Il corso che segue, infatti, lo tengono due nomi di spicco del basket di casa nostra: Matteo Panichi, attuale preparatore della Nazionale, e Francesco Macchniz, ex giocatore anche lui e preparatore atletico di buonissimo livello. Giorno dopo giorno, però, la mano sinistra inizia a fare sempre più male. Gli esami parlano chiaro: c’è una calcificazione derivata da una rottura dello scafoide saldata male. Andrea cade dal pero. «Con la memoria sono risalito al 2007, quando, dopo una partita di basket di Serie C Fabriano-Cagli, sono caduto male dopo un salto, appoggiando a terra la mano. Non avrei mai pensato a una frattura, ma quella sera dopo la partita così, tanto per precauzione, mi ero fatto fare una lastra all’ospedale di Camerino Il referto diceva che tutto era a posto, ma in quell’occasione mi avevano fatto una sola proiezione. Per individuare danni allo scafoide, invece, di proiezioni ne occorrono due. Dopo quell’esame non me n’ero più preoccupato e il giorno dopo ero già in palestra senza sapere nulla della frattura che invece, ho scoperto anni dopo, c’era eccome».
C’è poco da fare: bisogna intervenire chirurgicamente. «Io e mia madre, facendo ricerche su internet, abbiamo trovato questo medico, specialista nei polsi, che veniva dalla scuola di Modena ma faceva visite anche a Pollenza. Dopo avermi visitato il dottore non aveva dubbi: sarei tornato presto a fare sport, nel giro di un mese. Così mi operano il 9 dicembre 2014 in una clinica privata di Rimini e mi dicono che l’intervento è perfettamente riuscito. Ma in realtà non è così».
Il calvario inizia da qui. Nei primi giorni i dolori sono lancinanti e la febbre molto alta, dopo quasi un mese il polso ancora non si muove se con grande dolore. «Più che altro si vedeva a occhio nudo che la mano andava verso l’interno. Era storta. Era attaccata in maniera sbagliata». Fisioterapia, infiltrazioni di acido ialuronico, visite da altri medici: niente di niente, il dolore resta e la mano non si sblocca. «Seguendo le indicazioni di un fisioterapista abruzzese che avevo consultato, ho iniziato ad assumere degli antidolorifici in maniera sempre più massiccia. Non ti accorgi subito dell’assuefazione che danno, non è un processo così immediato. Te ne accorgi quando rimani senza e non dormi più perché ne hai bisogno. Nel 2016, in America, l’ossicodone ha causato più morti degli incidenti stradali. Pazzesco a pensarci, ma io non lo sapevo di certo, allora». Inizia l’incubo per Andrea. Un incubo fatto di alti e bassi governati solo ed esclusivamente dai ritmi delle pasticche che butta giù in quantità industriale. «Esisteva un Andrea con l’ossicodone in corpo, quello vivace e brillante e poi esisteva un altro Andrea senza più quest’effetto: una sorta di pallone bucato. A un certo punto ero talmente strapieno e assuefatto che appena sveglio, solo per vivere una vita normale e andare a lavorare, dovevo prendere sette pastiglie da 40 e masticarle a stomaco vuoto affinché entrassero subito in circolo».
Intanto però cerca di trovare una strada per risolvere il problema alla mano, che continua a tormentarlo e a impedirgli di allenarsi come ha sempre fatto. «Un medico romagnolo mi dice ciò che ormai era chiaro: chi mi aveva operato aveva fatto un disastro, era necessario riaprire la mano e provare a sistemare il danno, ma il dottore mi dice chiaramente una cosa: la mano non sarebbe più tornata come prima, avrebbe avuto grosse limitazioni di mobilità. Alla luce di ciò, e del fatto che il medico che mi aveva operato non rispondeva più alle mie chiamate, ho sporto denuncia. Il problema era che il giudice aveva nominato un consulente tecnico d’ufficio che mi avrebbe visitato solo 11 mesi dopo, per cui nel frattempo non potevo rioperarmi. La notizia mi fece crollare il mondo addosso».
Devastato dalla situazione, Andrea si spinge sempre più a fondo. Inizia ad acquistare antidolorifici anche sottobanco, ne ingurgita dosi 10 volte maggiori a quelle che dovrebbe assumere. Intanto il tempo passa e il 9 dicembre 2015, ad un anno esatto dalla prima operazione, torna sotto i ferri. Due operazioni nel giro di un paio di mesi gli rimettono la mano in sesto. Ma il problema, ora, è l’essere di fatto diventato un tossicodipendente. Prova a disintossicarsi una prima volta, nel 2016, in una clinica di Ancona. Ma non funziona. Con i miglioramenti della mano, torna a buttarsi a capofitto nello sport: prima il tiro al poligono, poi il pugilato, quindi il football americano. Gioca persino in Serie A con i Dolphins Ancona per un periodo. «La mano mi faceva ancora male, certo, ma Pippi Moscatelli, allenatore che fa parte della Hall of Fame italiana, mi aveva stimolato al massimo. Davo il massimo, perché avevo bisogno di tirare fuori l’odio che avevo dentro. Per un po’ funzionò, poi però sono andato via di testa e ho lasciato la squadra a 2-3 partite dalla fine della stagione. Dopo aver lasciato i Dolphins avevo fatto un’altra risonanza magnetica e avevo scoperto che due delle tre viti all’interno del polso si erano spezzate e anche le ossa, le poche ossa rimaste nel polso avevano subito danni. Ero a pezzi».
Siamo nel 2019 e la vita di Andrea è appesa a un filo, con la mano frantumata e la dipendenza dagli antidolorifici che lo divora. Un giorno, però, arriva un raggio di luce. Nel suo ufficio all’Enel, dove lavora da anni, arriva un ortopedico. «Dopo avergli parlato del mio calvario ci eravamo accordati: io gli sarei andato incontro risolvendogli alcune grane con delle bollette, lui mi avrebbe fatto una visita in amicizia. E dopo avermi visitato, mi aveva detto: “La mano è un disastro, io non ci metterei mano, l’unico a cui puoi far vedere una cosa del genere è un professore che opera a Modena”. Con una nuova speranza ho scritto al professore su Messenger. E lui mi rispose immediatamente».
La risposta prospetta però solo due vie: operare per lasciare la mano “lenta”, ma a quel punto la sua vita sarebbe stata solo vita d’ufficio e poco più, oppure all’inverso bloccare il polso guadagnando forza nella presa, ma perdendo completamente la mobilità. «Gli ho chiesto se con il polso bloccato avrei potuto combattere: una volta rassicurato su questo, a patto di aspettare 6-7 mesi che si fosse saldata la situazione, non ho avuto dubbi». Covid e lockdown non aiutano, i tempi delle operazioni si dilatano e quel flebile raggio di luce per Andrea torna lontano, lontanissimo. «Continuavo a imbottirmi di farmaci e non potevo allenarmi: a novembre 2020 era arrivato a pesare 145 chili, ero un bisonte. La mia ragazza di allora, che era psicologa e psicoterapeuta, riuscì alla fine a convincermi a rivolgermi al Sert di Pesaro. Lì conobbi delle persone stupende che, ascoltandomi, dandomi i giusti consigli e con l’aiuto del metadone, pian piano mi hanno indicato la via».
Andrea si motiva anche scoprendo la storia di Tyson Fury, pugile risorto dalla dipendenza dalla cocaina fino a tornare campione del mondo, e stavolta segue per davvero la strada verso la disintossicazione. Intanto il tempo passa e, a luglio 2021, finalmente, può tornare sotto i ferri. «Dopo l’operazione dovevo solo aspettare. Finalmente avevo eliminato tutti i farmaci, ero davvero pulito. Dopo sei mesi, allora, riprendo con la boxe. Avevo fame di ring, volevo combattere, ma col sinistro non riuscivo a colpire bene. Mi buttai a capofitto sul lavoro per non pensare, poi quando la ragazza con cui nel frattempo mi ero messo scappò di casa, lasciandomi dall’oggi al domani, ebbi paura di crollare definitivamente». L’ultimo passo verso la redenzione. «Non ho mollato e sono entrato nel 2023 con uno spirito tutto diverso».
Andrea conosce Michele, che lo riporta al kickboxing. Uno sport che aveva provato appena chiuso col basket, tra il 2010 e il 2012, disputando anche un paio di incontri. Inizia ad allenarsi, la mano risponde bene. Inizia a sognare di tornare su un ring: un combattimento vero e proprio sarebbe il coronamento di questa lunga rincorsa e diventa il suo chiodo fisso in testa. Sembra qualcosa di irrealizzabile per un omone che ha 40 anni e ha vissuto sette vite in una. Ma il destino e quel basket che aveva lasciato tanto tempo prima tornano a tendergli una mano. Su Instagram, Andrea riallaccia il rapporto con Hanno Schoenmakers, ex cestista olandese che in quella Fabriano di Monroe che spiccò il volo verso Serie A ebbe il ruolo di prezioso gregario (più che altro da stopper difensivo ed egregio stoppatore: fu tra i migliori del campionato in questo, dopo esserlo stato in A olandese), proprio nella stagione in cui l’allora ragazzino matelicese si allenava saltuariamente con i cartai. «Gli ho raccontato la mia storia e gli ho parlato del sogno di potermi allenare con Mekki Ben Azzouz, che in Olanda, vicino Eindhoven, ha una palestra dove allena i più grandi kickboxer del mondo. Raggiunsi a casa sua Hanno, che nel frattempo mi aveva preparato una lettera in olandese nel quale si spiegava la mia storia e che avrei presentato alla palestra. Fu lui ad accompagnarmi fino ad Eindhoven. Con la lettera in mano, mi presentai a quel santone del kickboxing e dal giorno dopo iniziai ad allenarmi per 10 giorni con i più grandi atleti del mondo di questo sport».
Andrea è tornato in pista ormai: il bullismo, la mano devastata, le delusioni, gli amori finiti male, tutto è alle spalle. Manca solo uno step per liberarsi una volta per tutte dei fantasmi del passato. «Finalmente avevo trovato l’avversario per il mio primo match. Lui era già un semiprofessionista con una quindicina di incontri alle spalle, io un quarantenne che non ne faceva uno da un decennio. Ma ero pronto, fisicamente e mentalmente». Pugno dopo pugno, calcio dopo calcio. Andrea ha finalmente la sua redenzione. «Tecnicamente l’incontro l’ho perso, ma avevo vinto lo stesso. Avevo vinto contro tutti, contro chi mi aveva rovinato anziché curarmi, contro chi mi aveva lasciato, contro chi non aveva creduto in me».
Come Tyson Fury aveva ispirato lui nel momento più buio della sua vita, ora Andrea vorrebbe ispirare altre persone travolte da problemi di dipendenza. Così ha deciso di mettere nero su bianco il suo incubo in un libro, “L’ultimo passo”, scritto a quattro mani con Jonathan Arpetti e che presto arriverà in libreria. «Lo sport mi ha davvero salvato la vita».
di Marco Pagliariccio
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