Roberto Carmenati, dall’alba al tramonto

di Marco Pagliariccio

Del PalaGuerrieri che fu non resta che lo scheletro. Dicono che tornerà presto come nuovo, ma passarci davanti e vederlo ridotto così fa impressione a chi, da lontano, l’ha sempre guardato come una sorta di “tempio laico”.

È tarda mattinata, il sole brucia ai piedi del San Vicino. Fermo la macchina poco più in là ed entro in un bar. Ho un appuntamento ma no, niente di galante. «Bella la maglietta di Mississippi State! Fammiti raccontare una storia di quando con la loro maglia ci vidi giocare Darryl Wilson [che evoluì anche in quel di Osimo nella stagione 2003-2004. ndr], che poi portammo a Livorno per sostituire Dante Calabria: un tassista me ne parlò così bene…».

Roberto Carmenati

Con Roberto Carmenati ogni spunto di pallacanestro crea una connessione, un ricordo, una storia. Giocatore, allenatore, dirigente, scout: la sua è la parabola di un uomo che ha preso per la prima volta il pallone in mano sotto casa e che è arrivato a infilarsi l’anello di campione NBA all’anulare. «Ma letteralmente sotto casa. Io sono del 1964, il Fabriano Basket nasce nel 1966 e ha come prima casa il chiostro di San Benedetto, poi il campo della vecchia scuola media Gentile, che ora non esiste più. Io abitavo a 50 metri da lì, dove giocavamo tutti i giorni come tanti altri bambini a calcio, a nascondino e chissà cos’altro. La curiosità ci portò ad andare a vedere le prime partite dei “grandi” e così, verso i 9-10 anni, ho iniziato a giocare anche io. La prima categoria giovanile all’epoca a Fabriano era la squadra Ragazzi. Eravamo in 40 e ci fu una selezione ad inizio stagione. Uscirono gli elenchi degli ammessi e il mio nome non c’era».

Quel taglio non fu però la fine prematura di una passione, ma solo un cambio di rotta. «Mio cugino Claudio Brignocchi [ex allenatore, dirigente e presidente della Sangiorgese ai tempi della Serie A2, oltre che sindaco di Porto San Giorgio, ndr] mi suggerì di assistere a un corso di allenatori che si teneva a Porto San Giorgio, che all’epoca era molto più avanti di noi a livello di basket, in estate alla palestra Baldassarri. Vi partecipavano anche Ugo Sghiatti e Giorgio Secondini, che erano assistenti della prima squadra e quando mi videro lì mi dissero che se avevo questa passione a settembre, alla ripresa dell’attività, potevo unirmi a loro per l’inizio dell’attività».

La gola si secca riavvolgendo il nastro dei ricordi. Al tavolo arrivano due succhi Ace e qualche stuzzichino mentre la memoria di Roberto fa una sosta all’estate del 1979. Il Fabriano Basket è in Serie A2 e Carmenati arriva alla corte del “santone” del basket cartaio: Giuliano Guerrieri. «Mi sentivo come il garzone preso a bottega dall’artista. Con lui il rigore della tecnica era fondamentale, ma imparai soprattutto una cosa: la differenza tra allenare per sviluppare un giocatore e allenare per mettere la squadra nelle migliori condizioni per vincere. All’epoca Fabriano non aveva allenatori locali, per cui il fatto di crescere un giovane come era ben visto. Il patto era chiaro: “vieni quando vuoi e puoi e segui tutto quello che faccio io, dai senior in giù”. Stavo sempre in palestra e nel frattempo facevo il Liceo scientifico, sacrificando qualche voto pur di coltivare questa occasione. La missione di Guerrieri e del dirigente Vito Giuseppucci era quella di reclutare più giovani promettenti possibili anche da fuori per costituire un settore giovanile all’altezza della prima squadra che stava crescendo. Fu organizzata una foresteria che all’epoca era qualcosa di avveniristico e tentammo di reclutare Gianluca Trisciani da Montegranaro. Fu la mia prima missione come scout quella di seguirlo. Ricordo che andammo a giocare a Macerata di domenica mattina con la squadra di Promozione, campionato che giocavamo con gli juniores, poi nel pomeriggio mi spostai alla Bombonera per vedere giocare questo grande prospetto della Sutor. Giuliano venne con me, era una delle ultime partite della stagione, il palazzetto esplodeva. Poi Gianluca decise di andare alla Virtus Bologna e non se ne fece nulla, ma lo seguimmo da vicino».

Alberto Bucci (a sinistra) e Roberto Carmenati (a destra) in occasione della consegna del Premio Gentile da Fabriano 2018

Con l’arrivo di Alberto Bucci alla guida della prima squadra, Carmenati inizia a “bagnarsi i piedi” anche con i grandi a partire dal 1980. «Ero un po’ il tuttofare: affiancavo lo staff tecnico, arbitravo le partitelle, parlavo con i giocatori per mediare su alcune situazioni, li accompagnavo di qua o di là. Non avevo una mansione precisa e non andavo in panchina la domenica, ma facevo di tutto un po’. Dopo Bucci, nel 1983, arriva Massimo Mangano. Ci fu un equivoco con lui verso la fine dell’anno, io reagii male a una situazione e quindi decisi di chiamarmi fuori dalla prima squadra. A fine stagione arrivò Pero Skansi al suo posto: persona intelligentissima e preparatissima, ma non era adatto a una squadra che doveva lottare per salvarsi. È stato abile persino a cancellare quella sua brutta parentesi: chi si ricorda che retrocedette in A2 a Fabriano?».

Pero Skansi alla guida dell’Honky Fabriano Basket in serie A1 nel 1984/85 (foto: L’Azione)

Con Giorgio Montano arriva la promozione a viceallenatore e Fabriano nel 1988 torna in Serie A, salvo retrocedere di nuovo un anno dopo. Siamo nel 1989 e la società decide di riaffidarsi a Mangano. «Quella è stata una delle svolte della mia carriera. Ci eravamo chiariti e riappacificati, Massimo era una persona generosa e dal cuore immenso, non mi serbava rancore. Però quando tornò non mi volle come vice, portando invece con lui Guglielmo Roggiani. Non la presi bene, ero arrivato a frequentare l’università, ero combattuto fra la voglia di allenare e quella di raggiungere un titolo di studio. Facevo il pendolare con Ancona dove studiavo economia e commercio, avevo abbassato il tiro dopo le prima ambizioni di fare medicina. In quella situazione mi arrivò la proposta di andare a Trapani con la mansione di responsabile del settore giovanile. Una scelta di vita, che decisi di cogliere ascoltando la voce dell’orgoglio personale contro quelle di tutti coloro che mi circondavano».

Si accende lo sguardo a Roberto nel ricordare quella prima sliding doors di una carriera che ne avrebbe vissute di ben altre da lì in avanti. D’altro canto non è mai scontato, a 25 anni, volare per la prima volta a 1000 chilometri da casa per inseguire un sogno. «E’ stato il passaggio di svolta, quello in cui capii che volevo fare questo nella mia vita. Avevo reciso il cordone ombelicale e lasciato una realtà in cui sentivo ormai di essere più una sorta di mascotte che un tecnico apprezzato per le sue qualità. Volevo di più e lo trovai a Trapani, anche se non fu facile».

La realtà cestistica trapanese si preparava al grande salto in Serie A, ma la Sicilia di inizio anni Novanta era quella in cui la tensione tra Stato e mafia è ai massimi: la strage di Capaci arriverà non più di un paio d’anni dopo. «Quella Trapani soffriva stretta tra ambizioni sopra la propria portata, come la Serie A e la costruzione di un grande palasport, e le difficoltà di non avere risorse per fare tutto quanto. La Sicilia era ed è una terra bellissima, ma per niente facile. Oltre alla parte tecnica, c’era una parte umana non semplice da affrontare. A 50 metri da casa di coach Gianfranco “Cacco” Benvenuti, che allenava la prima squadra, qualche mese prima che arrivassi c’era stata una delle prime stragi di mafia, l’attentato al magistrato di Carlo Palermo a Pizzolungo, che si salvò miracolosamente. Ma al di là di quello, anche rapportarsi con i siciliani non era sempre banale. Una volta, in una partita delle giovanili molto combattuta, ero in panchina ad affiancare l’allenatore della nostra squadra. Presi le difese dei nostri ragazzi perché mi ero accorto che al tavolo succedevano cose non molto chiare e l’allenatore avversario arrivò a dirmi: “a quelli come te dovrebbero sparare quando arrivano sullo stretto di Messina”. Era una frase emblematica di quanto quella Sicilia soffriva di una sorta di pregiudizio ma anche di complesso di inferiorità verso chiunque venisse dall’esterno. Comunque, quelli furono anni d’oro per la società, con due anni con due promozioni consecutive dalla B alla A1, anche e soprattutto grazie al lavoro di un coach come Benvenuti. Fu lui ad assegnarmi i primi lavori di scouting “vero”: ero una sorta di assistente-ombra per lui, andavo a vedere le partite degli avversari, segnalavo giocatori e situazioni, c’era un bellissimo scambio».

Alla fine del secondo anno in terra siciliana, la chiamata a sorpresa: Mangano si ravvede e lo rivuole a Fabriano come primo assistente e responsabile del settore giovanile. «Sono tornato ma con la credibilità professionale che avevo cercato di ottenere prima di partire. Ottenemmo subito il ritorno in A1 e negli anni successivi conquistammo, con il gruppo dei ’77-’78. prima la finale nazionale Allievi e poi quella Cadetti». Ed è proprio Mangano a spingerlo sempre di più verso il mondo dello scouting. «Massimo è stato una delle menti più brillanti del nostro basket e uno dei primi a scegliere gli americani per le proprie squadre in autonomia, senza passare dai canali classici, che all’epoca erano procuratori come Jim McGregor e Luciano Capicchioni – dice Carmenati – Mangano faceva due viaggi all’anno in America, a sue spese: una volta appena finita la stagione, in concomitanza con le finali NBA, per tenere relazioni e rapporti in loco; poi una seconda per la Summer League, dove si visionavano i giocatori interessanti per il nostro campionato. Io andai per la prima volta negli Stati Uniti alla fine del primo anno a Trapani, nel 1989: per due settimane andai a studiare l’inglese, cosa che già facevo in Italia, la terza andai alla Summer League, che all’epoca si svolgeva a Los Angeles nel campus di Loyola Marymount. Gli italiani eravamo io, Mangano e Andrea Fadini. Fu shockante vedere quel tipo di basket, più simile al playground che a quello a cui eravamo abituati in Europa. Nel 1990 fu lì che vidi per la prima volta Shawn Kemp».

Ma di “The Reignman” parleremo più avanti, precisamente dopo pranzo.

Perché intanto si sono fatte le 13 e l’acquolina in bocca sale. Usciamo dal bar e ci spostiamo in un ristorante poco lontano: il registratore può tornare a fare il suo lavoro. Siamo piombati nell’estate 1994, quella in cui il Fabriano Basket decide di dare in mano a Roberto Carmenati le redini della prima squadra. Era appena 30enne, ma di fatto con un esperienza già decennale alle spalle. «Quel ciclo si concluse con una nuova retrocessione in A2 e il presidente Giuliano Ceresani mi disse: i treni passano una volta soltanto, questo è il tuo, se hai i coglioni lo prendi, altrimenti vuol dire che non ce li hai – ricorda il coach cartaio – fu una sfida d’orgoglio che non potevo non accettare. Decidemmo di confermare Jay Murphy, affiancandogli come veterani Andrea Gnecchi e Roberto Guerini e poi puntando su giocatori in cerca di un trampolino di lancio come Luca Sonego, Saverio Coltellacci, Stanislao Metta, Domenico Zecca, Andrea Conti, Davide Pedrotti. Fu strano trovarsi al collo tutti gli agenti che se presentavano come consiglieri di questo o quel proprietario e offrivano veterani stagionati. Noi facemmo delle scelte un po’ fuori dagli schemi e per fortuna Ceresani mi lasciò carta bianca: mi metteva solo un tetto sul budget, per il resto avevo piena libertà. Tutti ci davano per spacciati quando assemblai questa squadra e invece partimmo con nove vittorie nelle prime 10 partite, veleggiando tra le primissime per tutto il girone di andata. Togliendomi pure lo sfizio di battere all’esordio la Gorizia allenata dal mio mito Drazen Dalipagic. Calammo nel girone di ritorno, facendo comunque i playoff nonostante Murphy avesse problemi alla schiena e poi lo perdemmo per la rottura del tendine d’Achille. Giocammo contro Sassari e perdemmo dopo un’incredibile gara 3: con Jay sono sicuro che saremmo passati noi».

La stagione successiva doveva essere di consolidamento e invece le cose non vanno come si pensava. «La squadra cambiò parecchio, a partire da Murphy, che, visto il grave infortunio, non confermammo. Lo sostituimmo con Marcus Stokes, un buon giocatore, ma non il leader che era Erik. Ma soprattutto gestimmo male l’infortunio al ginocchio di Gnecchi, che trascorse praticamente tutto l’anno facendo terapie fino al giovedì da Isokinetic e allenandosi con la squadra solo una volta il venerdì. Perdevamo spesso partite nel finale e Gnecchi non ce la faceva proprio. Una sconfitta, ironia della sorte, in quel di Trapani mi fu fatale: fui esonerato».

Un tagliere di affettati conditi da ottima crescia rende meno amaro quel ricordo. E riporta la mente di Carmenati ai primi viaggi negli Stati Uniti, un’abitudine che Roberto continua a consolidare per diventare sempre più padrone della lingua, studiare giocatori e stringere rapporti con agenti, dirigenti e allenatori. «La logica dei miei viaggi era: andare, prendere appunti e seguire i percorsi dei giocatori che avevo visionato – spiega Carmenati – fu proprio grazie ai contatti presi in quei viaggi che Rudy LaRusso, ex giocatore dei Lakers e consigliere di molti club che cercavano giocatori in America, mi propose di fare da istruttore ad un camp estivo a Pepperdine, che credo sia la più bella università del mondo: Malibù, le ville degli attori, le colline che scrutano il mare, un’esperienza incredibile che condivisi con Riccardo Paolini. Inoltre in quel periodo c’era l’Olympic Festival, in pratica il camp nel quale le federazioni sportive americane selezionavano i giocatori da portare alle Olimpiadi. Vidi all’opera giovani emergenti come Glenn Robinson, Juwan Howard e via discorrendo, fu pazzesco. Siamo nell’estate del ’91, quel del mio ritorno a Fabriano, e mi incontro con Mangano proprio alla Summer League. Mangano voleva prendere Jay Murphy, che aveva giocato in Francia, ed Ed Horton, che invece era stato al Maccabi. Il primo ci convinse, il secondo lo vedemmo visibilmente sovrappeso e non ci fidammo, così virammo su un veterano come Larry Spriggs, che aveva proprio LaRusso come agente. Prima di Spriggs, però, avevamo fatto un tentativo con un altro giocatore che all’epoca non era ancora esploso, ma che in Italia col senno di poi avrebbe potuto fare la storia: Anthony Mason. Gli stavamo dietro sia noi che Fabrizio Frates per Cantù. Alla fine firmò per i Knicks e il resto è storia».

Anthony Mason ai tempi dei Knicks

L’altro giocatore su cui Carmenati mise le sue fiches per portarlo in Italia fu John Turner. «Lo prendemmo per sostituire Murphy a causa dei suoi problemi alla schiena, l’avevo visto proprio nell’estate di Spriggs alla Summer League coi Rockets – svela Carmenati – si trasferì poi a Siena, dove restò due anni, e io lo segnalai a Livorno quando arrivai lì. In coppia con un rookie di nome Dante Calabria fece grandi cose e con gente come Alessandro Fantozzi, i fratelli Gigena e Samuele Podestà venne fuori una grande stagione. L’ho voluto con me poi a Pozzuoli e di nuovo a Fabriano perché era grosso ma agile di piedi, dominante a rimbalzo ma con mano discreta. E soprattutto una persona squisita, apprezzatissima da tutti i compagni».

A Livorno Carmenati arriva nell’estate del 1996 e resta due anni tornando al ruolo di vice, prima di un coach navigato come Gianni Lambruschi e poi a supportare un emergente di cui si parla un gran bene: Luca Banchi. «Un allenatore preparato ed attento, lavoratore indefesso, una persona che mastica basket 24 ore al giorno: esattamente quello che si vede anche oggi. Gli affidarono un progetto che doveva essere funzionale a far crescere uno dei settori giovanili all’epoca tra i più floridi d’Italia. Fabriano alla fine di quella stagione mi offriva di ritornare ancora come vice di Giancarlo Sacco, ma preferii cambiare aria. Il primo contatto con Banchi e con l’allora gm Massimo Faraoni fu la trasferta a Barcellona per Eurobasket 1997: seguivamo Raimonds Miglieniks, nazionale lettone che aveva fatto l’università a UC Irvine diventando leader degli assist a livello NCAA. Doveva prendere il posto di Fantozzi perché si voleva ringiovanire la squadra mettendo in cabina di regia un giocatore che fosse più funzionale ad affiancare i giovani e che non facesse troppa ombra al lancio di Enrico Burini, sul quale all’epoca si puntava molto. Miglieniks non ci convinse e così ci rimettemmo alla ricerca. Un mio contatto americano mi segnalò un giocatore e, visto che Banchi ancora non conosceva l’inglese e non aveva il passaporto e Faraoni era impegnato in Italia, partii per visionarlo alle finali della Usbl, una lega estiva che si teneva all’epoca, ad Atlantic City: era Mark Baker, lo vidi fare qualcosa come 35 punti e 9 assist o giù di lì e rimasi incantato. Era piccolo ma un grande atleta, passava la palla come non avevo mai visto prima. Aveva fatto casino nella sua vita per cui dopo essere uscito da Ohio State non ebbe mai grandi occasioni. Ma mi spiegarono che si era ravveduto e così lo prendemmo, preferendolo a Ivo Maric. Gli mettemmo vicino Brent Dabbs al posto di John Turner, un lungo difensivo incredibile che sotto canestro con Podestà formava una coppia che si integrava da dio. Baker fece una stagione fenomenale e dominammo la regular season, ma quando la moglie, che era incinta, ritornò in America per partorire lui di fatto mollò di testa. Senza di lui scendemmo di colpi e perdemmo la finale per la A1 contro Imola».

Un giovane Carmenati con Manute Bol

Nomi, talenti, immagini che mi accendono ricordi dei Superbasket acquistati nell’edicola vicino a casa quando la NBA la potevamo solo sognare e la Serie A era l’anticipo del sabato pomeriggio su Rai 3. E mentre i bucatini all’amatriciana aspettano fumanti sul tavolo e compare dalle retrovie del locale Francesco Gnecchi, che oggi veste i colori della Janus e che dell’Andrea che fu pilota in campo della Turboair di Carmenati è il figlio, la storia continua a srotolarsi. Chiusa la parentesi toscana, Carmenati ritorna a vestire i panni del capo allenatore. Arriva un triennio tutto in Campania nel quale il suo destino continua a incrociarsi con Fabriano: a Pozzuoli arriva una salvezza all’ultima giornata battendo nello scontro diretto proprio Fabriano, che per questo ko retrocede in B1 (salvo poi essere ripescata), ma a Napoli i cartai si vendicano con gli interessi: la finale per la A1 del 2001, infatti, è quella del canestro di Gundars Vetra a fil di sirena. «Quell’estate decisi di fermarmi e a settembre, poco dopo l’attacco alle Torri Gemelle, volai in America: per la prima volta avevo l’opportunità di vedere la NBA e molto altro senza pormi il problema di dover tornare per la stagione. Partii con Giampiero Ticchi, che era appassionatissimo dell’attacco triangolo che giocavano Phil Jackson e Tex Winter. Andammo a vedere quei Lakers all’opera per una settimana, ma anche il college di UCLA. Poi Giampiero tornò e io mi spostai a Houston, dove facevo base di solito in America perché avevo delle conoscenze in loco. Da lì ho iniziato il mio tour visitando Texas Tech, dove allenava una leggenda come Bobby Knight, quindi Duke con coach Mike Krzyzewski e North Carolina da Matt Doherty. Nel frattempo, mi chiamano prima il presidente Nello Longobardi da Scafati, quindi Bergamo e infine Montegranaro, che alla prima stagione di A2 stava facendo un disastro, in due momenti diversi. Rifiutai tutto perché a proposte così, senza progetti tangibili, preferivo restare negli USA a studiare ed aggiornarmi».

All’arrivo dei caffè è tempo di tirare fuori il primo asso: Kareem Abdul-Jabbar. Perché sì, Roberto Carmenati fu per qualche mese assistente di una delle leggende del basket americano. «Fu LaRusso a propormi per un ruolo da assistente allenatore in USBL, una lega secondaria americana che si svolgeva da aprile a giugno e che accoglieva giocatori che andavano in cerca di una seconda opportunità per mettersi in mostra. A sua volta Kareem stava cercando di inserirsi nel giro come allenatore, anche perché era un po’ a corto di soldi, e casualità ha voluto che venissi piazzato proprio agli Oklahoma Storm, dove lui era arrivato grazie al suo ex compagno di college a UCLA Bill Sweek. Io non chiesi nemmeno dei soldi: volevo solo fare un’esperienza di questo tipo. Addirittura nei primi giorni mi pagai anche il motel dove stavo. Inizialmente Kareem ovviamente era diffidente nei miei confronti. Pian piano però capì che potevo essere utile in qualche modo e non fui più visto come un corpo estraneo, anzi. Ha iniziato a chiedermi consigli, io tenevo anche delle rudimentali analytics sbobinando ogni singola azione di ogni singola partita in base alle chiamate offensive che facevamo. Lo ha apprezzato molto. Ricordo con estremo piacere un viaggio in macchina con lui che guidava in una trasferta sulla costa est. Per Kareem, in generale, non era facile: doveva sforzarsi di raffrontarsi con gente che viveva una pallacanestro a livello estremamente più basso di quello che aveva vissuto lui per decenni, ma doveva essere capace di comunicare un’idea di gioco senza far pesare alla squadra che lui era Kareem e gli altri al confronto non erano nessuno. È una persona molto timida e ha un grande complesso per la sua altezza. Ricordo che una volta doveva fare un’intervista e il giornalista, per rompere il ghiaccio, si fa portare una scaletta e ci sale per arrivare alla sua altezza. Pensava di essere simpatico e invece non l’avesse mai fatto: Kareem non ha voluto sentire storie, se n’è andato e l’intervista è saltata. Ha un enorme fastidio nel vivere la celebrità: all’epoca era il volto della lega, che addirittura gli pagava metà dello stipendio per esserlo. Una volta in un hotel due vecchietti lo riconoscono e gli attaccano bottone. Lui dopo le prime domande prende e scappa in pullman: gli abbiamo dovuto portare la colazione noi. Ma nonostante tutto ciò era una persona seria, professionale, impeccabile. La USBL non era la NBA, era tutto spartano, anche se c’erano altri volti importanti come allenatori come Darryl Dawkins e Cliff Levingston. Facevamo trasferte da 10 ore in pullman in mezzo alle sconfinate praterie americane. Una volta finimmo una partita a St. Louis, rientrammo alle 5 di mattina in pullman e alle 13 avevamo una nuova partita, peraltro in diretta tv. Ma eravamo una buona squadra, avevamo Corey Brewer e Ira Clark, e alla fine vincemmo il campionato: dopo la vittoria mi disse: “grazie maestro”. Uno dei ricordi più belli che conservo nel cuore. L’ho rincontrato solo una volta dopo quell’esperienza: all’aeroporto di Phoenix, io ero di passaggio e ci siamo incontrati perché lui per un periodo era fidanzato con una ragazza indiana di lì vicino. Per non farsi riconoscere si era tutto incappucciato e ci siamo salutati nel bagno».

Carmenati e Kareem

Il sole è caldo fuori, si sta bene a riavvolgere il nastro della memoria. Il PalaGuerrieri non è troppo lontano, anche se oggi è ancora un cantiere aperto. E con un anello al dito, Carmenati ci torna nell’estate del 2002: il richiamo di casa è troppo forte, specie se si tratta di Serie A1. «La società ci lasciò in braghe di tela e fu un calvario, ma portammo la stagione a termine con grande dignità, retrocedendo ma lottando in ogni partita con una squadra praticamente dimezzata». Ma da un disastro annunciato nasce un’occasione insperata. «Sono rimasto fermo rifiutando alcune proposte in estate, poi a febbraio 2004 mi chiama nuovamente Montegranaro, stavolta con il gm Mauro Montini. La squadra è in B1 e ha grandi ambizioni, ma non sta funzionando tutto alla perfezione. Ci incontriamo al casello di Ancona Nord, ma non me la sento, era un campionato che non conoscevo per niente ed avevo troppi dubbi. Da lì la Sutor virò su Stefano Pillastrini e sappiamo tutti come è girata la storia da quel momento. Era un martedì sera e mentre succedeva tutto questo la Breil Milano stava giocando l’andata degli ottavi di finale di Uleb Cup contro Badalona: perdono di 16, distrutti dalle triple di un ragazzino di nome Rudy Fernandez e viene esonerato Attilio Caja. Il giorno dopo io vado a Livorno per una rimpatriata con degli amici a casa di Faraoni e a fine cena mi arriva una telefonata: è Gino Natali, allora gm dell’Olimpia, che non aveva trovato alternative per la sostituzione dell’Artiglio. Andai subito ovviamente, una chiamata del genere non si poteva rifiutare».

Roberto Carmenati durante un timeout con la sua Breil Milano

È l’ultima Milano pre-Armani, quella sull’orlo della bancarotta. Carmenati la pilota serenamente sul campo, quello che serve per preparare il terreno al cambio di proprietà che modificherà anche il destino della società più gloriosa d’Italia. «La mia prima partita è in casa contro la Siena di Recalcati, che poi vincerà lo scudetto: perdiamo di 1 all’ultimo secondo con rimbalzo d’attacco di Kakiouzis su mancato tagliafuori di Rancik. Due giorni dopo abbiamo il ritorno con la Joventut, vinciamo di 12 ma non basta per ribaltare la sconfitta dell’andata. Mi ricordo ancora Dino Meneghin che viene da me e fa “coach, quando sono entrato eravamo a +17, ma non dire in giro che ho portato sfiga!”. Perdemmo male qualche partita di troppo, ci togliemmo lo sfizio di battre la Fortitudo di Repesa all’ultima giornata, ma non bastò: potevamo fare i playoff con qualche attenzione in più. Col presidente Giorgio Corbelli ci lasciammo bene: lui stava cercando aiuto per salvare la squadra, era pronto a portarla via trasferendo tutto a Genova e tenendomi come allenatore. Alla fine però politica e imprenditoria si sono mobilitate, la società restò a Milano e iniziò il nuovo corso, con la panchina affidata a Lino Lardo».

Roberto Carmenati dà indicazioni a Beno Udrih e Hugo Sconochini

Ancora non lo sa all’epoca, ma quella è l’ultima tappa della sua carriera di allenatore. «Partii per l’America a fine stagione. Ero a Houston e una mattina, mentre stavamo leggendo i giornali col mio amico LaRusso, ci salta all’occhio un articolo sul draft in cui si dice che i Dallas Mavericks stanno per scegliere Pavel Podkolzin alla 5 del draft NBA 2004. Io l’avevo avuto da avversario, visto che giocava a Varese, e lo avvertii che probabilmente era un azzardo una mossa del genere. Era enorme e si muoveva benissimo, metteva palla a terra, tirava, ma non aveva il senso del gioco. LaRusso all’epoca era agente di Avery Johnson, che stava per fare il suo ultimo anno da giocatore ai Mavs e che avrebbe preso il posto di Don Nelson in panchina la stagione successiva. Così chiamò subito Mark Cuban e gli disse del mio suggerimento, parlandogli di me. Al draft, poi, i Mavs non sprecano la loro prima scelta così [arriverà Devin Harris, ma per Podkolzin ci sarà comunque la chiamata alla 21, ndr] e Avery Johnson, venuto a sapere la cosa, mi promette che una volta diventato head coach mi avrebbe portato con sé. Effettivamente poi non entrai nel suo staff, ma l’anno dopo, nell’estate 2005, mi fece chiamare dal capo dello scouting dei Mavs per farmi dare una chance. Mi presero in prova con un contratto annuale da 10mila dollari. Una miseria, non ero affatto convinto se accettare o meno. Ma mi dissero chiaramente: noi non abbiamo bisogno di te, ma siamo pronti a vedere cosa sai fare. Ripensai alle parole che tanti anni prima mi aveva detto Ceresani: se hai le palle ti metti in gioco. Accettai la sfida di essere una sorta di consulente esterno per l’Europa. La mia prima missione fu quella di seguire in incognito in Belgio DJ Mbenga. Una sorta di test per le mie capacità. Lo superai e così mi richiamarono a Dallas per conoscere tutta la dirigenza, da Cuban a Nelson e via dicendo: ero a tutti gli effetti uno scout dei Mavs. Non ho deciso lì che non avrei più allenato, non sapevo bene dove mi avrebbe portato questa cosa. Ma non lo sentivo come un parcheggio temporaneo, anzi, pensavo che magari si potesse aprire anche qualche chance come assistente in futuro. Non è andata così poi, anche per motivi familiari non avrei più potuto prendere un impegno di quel tipo: e così eccoci qua».

Treviso, 2011: Carmenati con Dick Baker (al centro) e Alvidas Pazdrazdis (a destra), ex scout dei Mavericks durante una cena di celebrazione del titolo NBA

Dal 2006 in avanti, Carmenati è uno degli occhi in Europa della franchigia texana, da sempre una delle più attente al mercato internazionale. «D’altronde Tony Ronzone, per tanti anni capo dello scouting dei Mavs, è stato un pioniere in questo. E ricordiamoci il ruolo dei Nelson nell’arrivo in NBA di Sarunas Marciulionis e nella scelta pionieristica di Wang Zhizhi, il primo cinese in America, colui che aprì la strada poi a Yao Ming. Personalmente, il primo giocatore per il quale mi spesi molto in ottica draft fu Rodrigue Beaubois. A un certo punto, quando era a Cholet, esplode fragorosamente con una sequenza di partite in cui tira con tipo il 60% da 3. Lo chiamarono per fare un try-out prima del draft e nei test fu impressionante, fece ottime cose alle finali di Eurochallenge, in cui poi Cholet perse in finale contro la Virtus Bologna e fu devastante anche all’Eurocamp di Treviso. Un’altra operazione che ho spinto con forza è stata quella di Salah Mejri. Il Real Madrid non lo aveva confermato e Dallas aveva bisogno assoluto in un pivot dopo aver mancato l’assalto a DeAndre Jordan. Furono allertati tutti gli scout di cercare soluzioni “creative” e quando toccò a me dire la mia spinsi forte per il tunisino. Mi sembrava perfetto per completarsi con Nowitzki: intimidatore ma veloce di piedi, ottimo rimbalzista e stoppatore, corre il contropiede. Infatti ebbe discreto impatto, ma aveva un problema al ginocchio che lo limitò. Poi segnalai Maxi Kleber, che ebbe una grande sfortuna, con diversi infortuni non di gioco proprio nel periodo in cui era sotto i radar di molti scout. Finì un po’ fuori dai radar, poi a Obradoiro lo rividi fare le grandi cose che gli avevo visto fare anni prima. Al Bayern conferma i progressi e a quel punto i Mavs si convincono a puntare su di lui. L’ultimo per il quale ho spinto molto è stato Dante Exum dopo la stagione al Partizan: ma lui era già un profilo noto in NBA».

Tra questi nomi ne mancherebbe uno, quello che sta cambiando il corso della storia della franchigia texana: un certo Luka Doncic… «Credo che il suo arrivo in NBA abbia portato a compimento tutto il processo innescatosi trent’anni fa e demolito definitivamente il complesso di superiorità degli americani nei confronti del resto del mondo. Dallas commise un errore con Giannis Antetokounmpo: Cuban decise di passare oltre per preferire profili più pronti subito e non perdere la competitività del team (Dallas sceglie alla 11 del draft 2013 Kelly Olynyk e lo cede ai Celtics in cambio di Shane Larkin, mentre il greco scivola alla 13 e viene chiamato dai Bucks, ndr). Di Doncic nessuno aveva dubbi riguardo al talento, ma ci si chiedeva se potesse essere davvero un giocatore NBA o se fosse per caratteristiche più adatto al gioco FIBA. E se era un giocatore NBA, era una riserva chiave? Un titolare? Una stella? Un giocatore franchigia? Si andava un po’ a tentoni. La maggior parte dei decision makers NBA si è fatto convincere dai luoghi comuni convenzionali sugli europei: poco veloce, poco atletico, playmaker in Europa sì ma di là no, sta prendendo peso. In realtà l’atletismo di Doncic è tutto nelle gambe. Ha una forza spaventosa e una capacità che dal vivo ho visto solo nei grandissimi come Lebron James o Kobe Bryant di tenere sempre un assetto raccolto, di perfetto equilibrio sia in accelerazione che nei cambi di direzione e negli arresti, compreso lo step back. È sempre in equilibrio, quello è il suo atletismo. Invece tutti riflettevano su verticalità ed elevazione. Ma la coordinazione e il gioco di piedi fantastico che ha sono sottovalutatissimi».

Il 16enne Luka Doncic che domina l’Angt di Euroleague nel 2015

Lo sloveno si disvelq al mondo alla finalissima dell’Angt di Euroleague 2015, in occasione delle Final Four di Madrid, torneo del quale, a 16 anni, si laurea MVP giocando con ragazzi due anni più grandi di lui. «Da quel momento inizio a seguirlo da vicinissimo. Mi ricordo che volai Istanbul per Darussafaka-Real, lui non era ancora maggiorenne ma era già stabilmente nelle rotazioni della squadra. Llull è infortunato, per cui Laso lo lancia per la prima volta da titolare. Brad Wanamaker gli stampa 27 punti in faccia, lui gioca malissimo caricandosi di falli, non riusciva a venirne a capo. Ero seduto dietro la panchina del Real e ricordo nitidamente il suo pianto disperato per la frustrazione che provava. Ne fui piacevolmente colpito: una reazione tipica dell’adolescente, ma che sa quello che vale e che sa che non l’ha saputo dimostrare. Fra alti e bassi lui continua a crescere e a settembre 2017 esplode agli Europei. Da lì in avanti è caccia a Doncic da parte di tutti. Ricordo che Ronzone, Nelson e tutti gli altri mi chiedevano se Doncic potesse essere meglio di Lonzo Ball, che all’epoca era rookie dell’anno ed era considerato una sorta di Jason Kidd con tiro. Li porto a Madrid per un “Clasico” in cui c’era mezza NBA, lui domina mettendo in mostra un paio di colpi di talento assoluto: mi giro verso Tony e gli faccio un cenno come per dire: con lui andiamo tranquilli. In realtà, però, nelle riunioni con gli scout cerchiamo di tenere un basso profilo, Nelson dice a tutti che è grasso, lento e più basso dei 2 metri ufficiali, per non parlare delle “intel”. Nel frattempo la squadra non vince per cui le possibilità di scegliere in alto al draft salgono. A fine stagione, torniamo a vedere Luka prima a Fuenlabrada e poi nei playoff di Eurolega col Panathinaikos. A Oaka il Real non si presenta, Doncic è nascosto nella tuta sin dal riscaldamento e in campo Thanasis Antetokounmpo lo marca faccia a faccia dal primo secondo tenendolo fuori partita. Non c’è partita. Il gm dei Mavs a fine serata non ha aperto bocca. L’ho recuperato alle 3 del pomeriggio successivo per andare a vedere Olympiacos-Zalgiris e con un’email gli riepilogai tutta la stagione di Doncic, che era stata stellare. Dovevo mettergli quella gara in prospettiva: una serata storta in un’annata da incorniciare. Qualche settimana dopo, alle Final Four di Belgrado, mi trovo seduto vicino a Jonathan Givony che mi dice: DeAndre Ayton è la numero 1 sicura, Sacramento non sembra molto interessata a Doncic, Atlanta è ancora meno convinta, Memphis idem per cui Luka potrebbe anche arrivare alla 5. A quel punto noi da un lato parliamo con Bill Duffy [agente americano di Doncic, ndr], gli forniamo determinate garanzie e ci accordiamo: col suo aiuto, avremmo provato a salire di qualche posizione al draft per scegliere Luka. Travis Schlenk, rookie gm degli Hawks, bravissima persona, era stato portato a Golden State da Don Nelson nell’anno in cui gli Warriors scelsero Curry e voleva ripetere l’operazione con Trae Young. Per cui alla proposta di scambio che facemmo disse subito di sì e noi salimmo a poter scegliere alla 3. Il grosso degli scout aveva visto Doncic alla Coppa del Re quell’anno e lui non giocò bene, anche perché veniva da un tour de force iniziato con gli Europei nel quale non si era mai fermato. Io non avevo dubbi: lui era il migliore di quella classe. E i Mavs fecero quella scelta. Io scrissi la sera stessa un messaggio a Mark Cuban dicendogli che Luka l’avrebbe ripagato con un grande rendimento e almeno 7-8 triple-doppie. Sai quante ne fece il primo anno? Otto. Ma non fu una casualità, era un numero che veniva da uno studio che avevo fatto sui suoi numeri in Acb e Eurolega, rapportandoli ai 48 minuti e al metodo di assegnazione degli assist americano. Oggi tutti riscuotono i meriti di quella scelta ed è giusto così, il mio orgoglio è quello di essere stato sicuro sin da subito delle capacità dello sloveno. Ricordo solo un’altra persona con cui parlai all’epoca avere la stessa certezza: Sergio Scariolo. Mi ricordo che mi disse “non ha limiti, può fare quello che vuole”».

Luka Doncic al draft 2018

Una liaison che dura da quasi vent’anni quella con i Dallas Mavericks. Che in mezzo ha una sola parentesi: quella di Montegranaro, dove dopo diversi corteggiamenti Carmenati arriva finalmente nell’estate del 2008 ma non in veste di coach bensì in quella di general manager. Una parentesi che dura pochi mesi e che si lega a doppio filo a una delle parentesi più surreali della storia del basket italiano: quella di Shawn Kemp. «Quell’estate a Montegranaro si viveva un’ansia da prestazione pazzesca. La Sutor era prigioniera delle cavalcate esaltanti degli anni precedenti, si soffriva di una paura enorme che quell’incantesimo meraviglioso si potesse rompere. Per cui l’idea era quella di avere una squadra che potesse partite subito forte a inizio stagione per mettere il “giocattolo” al riparo da ogni problema. In quella situazione, avere Kiwane Garris reduce dagli impegni in Nazionale, Wade Helliwell arrivato tardi e Shawn Kemp con la necessità di ritrovare ritmo ci portò a fare un precampionato con tante difficoltà. E questo contribuì ad accelerare verso la scelta di non puntare su Shawn. Kemp, come ho detto, lo vidi per la prima volta nel 1990 alla Summer League, ma l’ho conosciuto di persona dopo, quando era all’apice della sua parabola, nel 1996. Lo incontrai di nuovo in una serata a Los Angeles quando era ormai a fine carriera e parlando mi disse che lui, anche se era fuori dalla NBA ormai, voleva continuare a giocare, gli piaceva farlo. Siamo entrati in sintonia e sono diventato il suo personal trainer. Per un anno ho lavorato con lui per rimetterlo in forma nella sua casa a Houston ed era perfetto anche a livello logistico per me, perché era anche la città dove sono sempre stato di base nei miei viaggi in America. Perse peso e si mise in riga perché credeva davvero di poter tornare in campo. A Montegranaro non ci fu la pazienza di aspettarlo. Chiaro che non si poteva pensare che fosse quello che era stato un quasi MVP delle finali NBA, ma poteva essere un giocatore di grande impatto. Della Triade, che aveva un ruolo decisionale a tutto tondo in quella Sutor, colui che ci credette meno fu Tiziano Basso. Edo Trapè era affascinato dall’idea di avere un personaggio come lui e Marco Cannella ci vedeva una grande operazione anche a livello di immagine e marketing. Basso aveva qualche pregiudizio in più e non vedendolo al pieno della forma che aveva avuto negli anni migliori spinse per cambiare rotta e mandarlo via, puntando su una scelta più sicura come il compianto Brandon Hunter. In una situazione di minore pressione probabilmente l’operazione sarebbe andata in porto e avremmo davvero visto Kemp giocare in Serie A. Quando lavoravo con Shawn, l’avevo convinto a scrivere un libro sulla sua vita e il ritorno in campo a Momtegranaro doveva essere un po’ il lieto fine, il capitolo finale. Le difficoltà per emergere, l’approdo al successo senza scendere a compromessi anche al cospetto di Michael Jordan, il declino, il ritorno: sarebbe stata una bella storia, d’ispirazione anche per i suoi figli. L’idea gli piacque molto, l’aveva sposata per davvero e non gli dispiaceva vivere in una realtà in cui i ritmi erano più lenti rispetto all’America come a Montegranaro. Ci sarebbe voluto più tempo per scrivere quell’ultima pagina di una grande carriera. E ovviamente il caso Kemp fu visto dalla Triade come fiasco, per cui io ne uscii come il responsabile unico e solo. Ma all’inizio fu una scelta condivisa. Uscii di scena dopo la prima di campionato a Rieti e arrivò Gianmaria Vacirca».

La presentazione di Shawn Kemp a Montegranaro (foto: Il Quotidiano.it)

Ma Carmenati non portò solo Kemp a Montegranaro. Ma anche una perla scovata dal sommerso: Moussa Seck, perticone senegalese da 225 centimetri che se seguite le nostre minors potrete aver incontrato sui nostri campi nella stagione 2008/2009... «Un’altra storia che avrebbe potuto aver un altro finale. Fu una delle mie prime missioni. Lui non aveva mai giocato a pallacanestro, ma con quell’altezza lì ci siamo messi in testa di lavorarci su. Per un anno ho fatto la spola con il Senegal e quando sono arrivato a Montegranaro abbiamo tentato questa operazione: portarlo in Italia per iniziare ad assaggiare il basket organizzato, allenandosi con la Serie A e giocando in Serie C2 con la Poderosa. Successivamente l’abbiamo portato a Dallas e giocò la Summer League, giocando pochi minuti ma senza sfigurare. Addirittura Milwaukee lo invitò al veteran camp, per capirci. Nel frattempo, Dallas aveva appena varato la squadra nell’allora D-League e lo misero sotto contratto, cavalcandolo con una grande campagna promozionale: per il Thanksgiving lo vestirono con la tuta di Erick Dampier e lo mandarono in un centro commerciale di Dallas e la gente se voleva fare una foto con lui doveva firmare una sorta di prelazione sugli abbonamenti per la stagione della squadra di D-League. Incredibile». Seguire Seck gli è costato caro, carissimo: persino una notte al fresco… «Per poter vederlo giocare, restai in America per tutti e 90 i giorni possibili con il visto turistico. Ma quando dovetti cercare un volo di ritorno, non riuscii a trovarne uno per restare entro quel termine perentorio. Riuscii a partire per l’Italia la mattina del 91° giorno, per cui quando ho provato a rientrare in America un paio d’anni dopo, il 17 giugno 2011, tre giorni dopo la parata di festeggiamento per il titolo vinto dai Mavs, fui respinto alla dogana per aver violato la legge sull’immigrazione. Mi fecero fare una notte in carcere con tanto di manette. E da allora non sono più potuto andare negli Stati Uniti».

Moussa Seck e Tacko Fall

«Moussa giocò una prima partita in D-League facendo benissimo, la seconda non mise piede in campo per scelta dell’allenatrice, Nancy Liebermann. Lei non lo voleva e Moussa non giocò praticamente più. Sentitosi messo da parte, scappò via e ritornò in Africa: giocò un anno in Libia e poi tornò in Senegal, dove ha continuato sempre a giocare ma senza mai davvero sfondare. È una storia che insegna un aspetto importante: ci sono giocatori che, come li definiscono gli americani, sono “plug and play”, li butti in campo e rendono subito. Altri, come Moussa, hanno bisogno di un adattamento più lungo. Ma la D-League, oggi G-League serve proprio per questo e credo la Liebermann pensasse più a vincere le partite che a sviluppare giocatori».

Il locale si è svuotato, d’altronde siamo più vicini all’ora di cena ormai che a quella di pranzo. È ora di richiudere il baule dei ricordi. «Il campo mi manca molto. Questo è l’altro piatto della bilancia del lavoro che ho scelto di fare, che mi ha portato a raggiungere soddisfazioni enormi, ad altissimo livello, ma stando più lontano dalla squadra e dalle emozioni della partita. Proposte di recente? Ormai non più e non le ho nemmeno più cercate».